"Jamaica no problem": è scritto ovunque, sulle tshirt da 10 dollari, sui murales, sui cartelloni. lo ripetono in continuazione tutti. È questo il leitmotiv delle vacanze caraibiche.
Per noi che vi soggiorniamo una settimana o quindici giorni non ci sono problemi: mare, spiagge, belle donne, drink, aragoste e musica sono il "tasto erase" per i nostri dubbi, lo stress, i virus di malinconia che attaccano il nostro computer mentale. AI contrario non è facile vivere in un paradiso terrestre e non poterne cogliere i frutti proibiti.
Per i giamaicani è una vita double-face: devono vivere ai margini di uno splendido film, entrarvi un attimo da comparse, suonando e ballando, mostrando i dreadlocks, fumare ganja (cioè la marijuana), cantare due strofe di I wanna love you sorridendo, e uscire dal set.
La maggior parte della popolazione raccoglie le briciole del pranzo delle multinazionali straniere che gestiscono il turismo. Ci vuole incoscienza oppure una grande consapevolezza di quello che si è e che si vuole diventare per vivere così, senza esplodere.
Come tutto il Nuovo Mondo, anche la Giamaica appena scoperta è stata ridisegnata con la forza: solo i confini geografici sono rimasti gli stessi. Ogni dominatore, come in un puzzle, ha voluto inserire le proprie tessere. Gli spagnoli misero in atto la loro tipica pulizia etnica e non un solo indiano Arawak sopravvisse. Gli inglesi importarono il breadtree e aumentarono esponenzialmente il flusso degli schiavi africani.
Applicarono la loro consumata politica coloniale basata sull'unica legge che poteva assicurare loro il possesso per secoli della Giamaica: la durezza. I Mandingo, gli Ashanti, i neri del Congo e dell'Angola si trovarono soli su queste sabbie; la loro cultura cancellata; tagliate le radici con l'Africa.
Così è stato per 450 anni: poi un pool di persone fuori dal comune ha fatto di questa terra e di un popolo ibrido una nazione. Furono i Maroon, i primi schiavi fuggiti nelle foreste della Blue Mountain, a fare sentire la loro voce. Si batterono nel corso dei secoli prima contro gli spagnoli e poi, fino all'indipendenza, contro l'oppressore inglese.
Il primo eroe giamaicano fu una donna, quella Nanny che pagò con la vita le sue idee futuriste di libertà e uguaglianza. La statua di Sam Sharpe (altro eroe dell'indipendenza) eretta a Montego Bay non è il massimo, forse dovevano costruirla più grande, in bronzo, alta tre metri: la dimensione di un giusto ricordo per un uomo che combattè per quell'idea: la libertà. Agli schiavi era proibito parlare nei loro dialetti: i dominatori dovevano capire cosa dicevano e tramavano. Così nacque il patois, una miscela complicatissima di inglese, swaili e dialetti centrafricani: usata ancora oggi dai ceti medio-bassi.
Marcus Garvey fu il leader della riscossa. Suo fu il grido: «Back to Africa» che in realtà non si è mai tradotto, in un viaggio a ritroso, ma in una lieta consapevolezza di essere nero.
"Rifiutiamo di essere - come loro ci vorebbero - Siamo quello che siamo", cantava Bob Marley sulle note del basso di Aston "Famity Man" Barrett. Marley stato.....I'ultima nota, l'ultimo verso che .. mancava al poeta per concludere il lavoro di unificazione giamaicana: "Out of many, one people" (da molte genti, un unico popolo).
Marley ha riunito reggae e movimento rasta. Il reggae è stata la musica che faceva pensare, che raccontava con il suo sound caraibico i problemi di tutti i giorni: la bolletta da pagare, le malattie, la casa di cartone, la droga, il ghetto (il rap che deriva da questa musica non ha inventato niente: è solo un'emanazione americana del reggae). La filosofia rasta, anche se In po' macchinosa, è stata l'adesivo che ha cementato i vuoti tra le culture di popoli diversi e li ha riuniti sotto la bandiera dai tre colori. Rosso come il sangue dei morti; giallo come il sole e l'oro; verde come la terra d'Africa e come la ganja. Su tutto troneggia il leone di Giuda, il simbolo dell'Etiopia, la terra promessa, e della reincarnazione rasta di Dio: vale a dire Ras Tafari, conosciuto come Hailé Selassié.
È per le belle spiagge, per il mare, per il clima e la temperatura costante di 30 gradi che la Giamaica è diventata una meta turistica. Ma è anche per merito di Marley: il cantante è stato un ambasciatore del suo paese, lo ha promosso e fatto conoscere come meglio non si poteva.
Sulle guide si legge spesso che la Giamaica è un paese pericoloso: che i rasta detestano i bianchi. Sono giudizi precipitosi, che vanno corretti: sicuramente nessuno muore dalla voglia di sapere come si vive downtown a Kingston e di scoprire la vita notturna dei ghetti. Ci sono quartieri nella capitale dove è bene non mettere piede. Ma è così in tutto il mondo. E poi: vi piacerebbe essere fotografati cento volte al giorno solo perché avete un'acconciatura un po' stravagante? Alcuni rasta chiedono una mancia per questo lavoro da modello part-time e hanno ragione.
Per quanto ci riguarda, nei nostri rapporti con i giamaicani ci salva il nostro essere italiani: noi qui siamo amati e il trattamento che ci riservano è ben differente rispetto a quello tenuto, per esempio, con gli americani. Questo deriva dal fatto che siamo popoli simili; entrambi un po' pazzi, pronti a sorridere, a ballare e a fare amicizia col primo venuto. Questo piace e dà sicurezza ai giamaicani che, invece, non sopportano gli statunitensi con quel loro sentirsi superiori e potenti, per via dei dollari sempre in mano.
È questa la realtà di un paese in cui si alternano natura ancora incontaminata e resti di antiche civiltà tribali: set cinematografici naturali e monumenti coloniali.