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Viaggio nel deserto del Turkmenistan fino a Muynak sul lago Aral

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Continua l'avventura di Highway To Khan. Questa volta Federico si trova ad affrontare i paesaggi desolati, ma ricchi di fascino del deserto del Turkmenistan, con un percorso che porta il trio sulle sponde del lago di Aral, durante l'epico loro viaggio verso la Mongolia.

Turkmenistan
Ci svegliamo di buon ora, colazione "internazionale", andiamo subito in banca a risolvere un problema di mancanza di contanti ( in tutto il Turkmenistan c'è solo una banca che permette l'anticipo contanti tramite carta di credito, per fortuna aperta il sabato mattina ), poi cerchiamo un meccanico. La ruota a terra era causata dalla valvola rotta. I cerchi rientrano tra i pochi pezzi non sostituiti prima della partenza, quindi subiscono il peso di 10 anni di vecchiaia. Ce la caviamo con pochi Manat.

Per arrivare ad Ulan Bator, dall'Iran si prende la strada del Nord, deviando dal percorso che fece Bettinelli in "In Vespa": da Roma a Saigon. Dall'Iran era andato in Pakistan, India, Bangladesh, e sud est asiatico. Sicuramente una scelta più ricca di colori, odori, e umanità. Il nostro percorso invece è più psicologico: l'occidente artificioso, la calorosa umanità araba e persiana, l'austerità delle repubbliche ex-sovietiche, per arrivare alle lande desolate, come una liberazione, finalmente il silenzio, e il contatto vero con la natura, con il respiro del mondo, con la propria essenza.

Rotta verso Nord.
Il deserto Turkmeno ci fa patire un caldo mai sentito prima, strada dritta a perdita d'occhio, con pericolose escoriazioni dell'asfalto che mettono a rischio ruote e coppa dell'olio. Intorno solo dune e sabbia.
Guidiamo per circa 400 km, obbiettivo: il nulla.
Ci fermiamo a Darvaza, Bocca dell'Inferno. Dei soldati ci danno indicazioni, notano la Gopro sul tetto: la camera installata sopra al vetro anteriore, che automaticamente scatta una foto al minuto, rischiamo grosso perché mentre ci davano informazioni erano proprio davanti alla macchina ed effettivamente sono stati fotografati, ce la caviamo spiegando "OFF!" e offrendo una sigaretta ad ognuno.

La macchina non ci può portare alle bocche, troppa sabbia, lo capiamo dopo poche decine di metri fuori dalla strada asfaltata. Compaiono dei motociclisti che sembrano usciti da “Brendon” di Chiavarotti, ci vogliono portare a bordo delle loro enduro, per 20 dollari a testa.
Al momento decliniamo, per poi accettare l'offerta di uno strano personaggio in canottiera, che ci porta in jeep, ci abbandona per la notte a campeggiare, e ci promette di venirci a prendere la mattina successiva. All'idea Fanelli suda freddo. Ma si piaga al voto di maggioranza.
Parcheggiamo la macchina nel suo "camping": un quadrilatero formato da decine di container che contengono letti a castello e piccoli bagni, accoglienti per essere scatole di latta in mezzo ad un mare di sabbia. Sembra un po uno scenario da "non aprire quella porta".
Alla fine andrà tutto bene, a parte la scomodità di una cena in mezzo alla polvere, a base di sgombro del Caspio e fagioli in scatola.

La Bocca dell'Inferno è uno dei segni più scenografici della dominazione sovietica. Nella sfrenata corsa alle risorse durante la guerra fredda, quest'area: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, era la zona in cui l'Urss testava le bombe nucleari e stipava le armi batteriologiche. Nel caso specifico trivellando alla ricerca di petrolio, negli anni 50, è stato aperto un grosso cratere, diventato una valvola di gas naturale. Per evitare esalazioni hanno dato fuoco al gas, ma il giacimento è talmente importante, che 50 anni dopo il gas continua a uscire, e il fuoco è tutt'ora acceso. L'effetto è un cratere tipo quello di un vulcano, costantemente pieno di fuoco.
Fermarsi per la notte è suggestivo, perchè la luce emessa dal cratere, nel buio assoluto del deserto, è addirittura visibile a chilometri di distanza. Proseguiamo ancora verso Nord, frontiera Uzbeka, sosta rigenerante a Nukus, poi muoviamo verso Muynak.
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Muynak era un villaggio di pescatori, lambito dal mare di Aral. Insieme ad Aralsk, erano i poli di maggiore produzione di scatolette di pesce dell'Urss, e l'Aral forse il mare più pescoso dell'Asia. Lago salato, come il Caspio, separato dal Caspio nel pleistocene, al suo interno si sono evolute diverse specie autoctone, quindi uniche.
L'unico affluente è l'Amurda'ja, fiume che scende dal Pamir e da sempre la fonte di sussistenza degli abitanti dell'area.
L'Urss aveva a disposizione un territorio immenso, e per massimizzare la produzione, e vincere la sfida contro il mercato libero, applicava il principio delle monoculture. Quest'area era dedicata alla produzione massiva del cotone. Negli anni 50 iniziò la più mastodontica opera di canalizzazione mai realizzata, tutt'ora l'intero Karapalkastan è interamente solcato dalla rete di canali sovietici, alcuni in funzione, altri sono solo vecchie cicatrici.
Questa immensa modifica dell'ordine naturale, storico, delle cose, ha modificato l'equilibrio del Mare D'Aral, venendo a mancare il suo unico affluente, negli anni 70 ha iniziato lentamente a ritirarsi, negli anni 80 le industrie di Muynak hanno chiuso, ora, Muynak dista dal mare 50 km.
Mentre il mare che si ritirava, si è tentata una corsa contro il tempo per tenere i pescherecci in acqua, dragando la sabbia, scavando canali, poi anche le draghe non ce l’hanno più fatta, e si sono fermate, e le barche sono rimaste dov'erano. Ora infestano, arrugginite, il deserto.
Inoltre, per massimizzare la produzione la zona è stata per decine di anni bombardata di DDT e altri pesticidi. Così ora il vento sabbioso porta con se pesticidi tossici e il sale lasciato dal mare, rendendo il territorio completamente inospitale.
Muynak e uno dei posti più malinconici che ho mai visto. La Liguria d'inverno a confronto è Gardaland. Le strade mangiate dalla sabbia, i palazzi con le finestre chiuse con le assi, è un paesaggio davvero post apocalittico. Nel nostro immaginario hollywoodiano dovrebbero spuntare da un momento all'altro degli zombie. Invece in giro si vedono camminare le poche centinaia di abitanti rimasti. Persone che non hanno tanta voglia di sorridere.

Il lago Aral e Darvaza sono tappe significative nel nostro ideale percorso verso il nulla, verso l'essenza, rappresentata dalle desolate steppe mongole. Tappe che rappresentano la follia dell’idea di “progresso infinito”, in nome della quale si baratta l'equilibrio millenario del nostro pianeta, con 30 anni di crescita smisurata. Prendiamo l'albergo. Senza luce in stanza ne acqua in bagno. E’ l’unico. Visitiamo il museo: uno stanzone in una scuola, ricordi del passato glorioso: la vecchia fauna, imbalsamata malamente, i manifesti sovietici che celebrano il raggiungimento delle quote di produzione annuali, e soprattutto le vecchie foto della fabbrica, del mare, e dei pescatori, una ragazza ci traduce il cirillico con poche parole in inglese "la fabbrica" "le operaie" "il ministro dell'economia in visita" "il metallo veniva dall'ucraina e qui inscatolavamo". Parole pronunciate con un filo di voce, dense di orgoglio e malinconia. Un dipinto allegro, di suonatori vestiti tipici, gioiosi, spalle al mare pieno di pesci, contrasta con le piante d'arredo, completamente secche, e con il paesaggio fuori dalla finestra.

Incontriamo un gruppo di bambini. I bambini sono sempre la via d'uscita, gli unici che ridono sorridono e giocano, sempre e comunque. Vogliamo farci accompagnare al cimitero delle barche, dopo tentativi mal riusciti di disegnare barche sulla sabbia, capiscono, li seguiamo.
Sotto ad un monumento celebrativo, 10 pescherecci arrugginiti, tra le dune di sabbia. Faccio qualche ripresa. Un vecchio passeggia vicino al monumento, solo, guardando l'orizzonte. Mi dice: "qua sotto, negli anni 50, tutta acqua". Molta gente ha lasciato Muynak, soprattutto maschi adulti, rimane una città di bambini, donne e vecchi. Il signore non vuole essere fotografato, lo lascio solo al suo orizzonte. Magari con qualche bicchierino di vodka, chiudendo gli occhi, può ancora sentire lo scrosciare dell'acqua sugli scogli, l'odore del pesce, e vedere il suo peschereccio all'orizzonte, che rientra verso il porto.
Mi allontano, guardando i bambini che ci hanno accompagnato, giocare a nascondino tra le lamiere di una carcassa arrugginita di peschereccio. Corrono, gridano e ridono.
Domani Khiva.

Federico Maccagni di Highway To Khan verso Khiva in Uzbekistan. Destinazione: Ulan Bator in Mongolia

 Pubblicato da il 25/08/2011 - - ® Riproduzione vietata

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