La Valle dei Templi di Agrigento. Guida alla visita del parco archeologico
“Rappresenta un capolavoro del genio creativo dell’uomo”. Chi l’ha detto? L’UNESCO, elevando nel 1997 la Valle dei Templi di Agrigento tra i Patrimoni dell’Umanità.
Significa che oltre a “testimoniare una civiltà scomparsa” e raccontare, con fraseggi di marmo scolpito, una fetta “grande della nostra storia” qui si è fatto qualcosa di più, di unico. Appunto, si è realizzato un colpo di genio. Si badi bene: vecchio di qualcosa come 2500 anni. Portati però con l'eleganza mai eccessiva di una grande signora.
Non ci credete? Iniziate a camminare tra i templi in un mattino di sole siciliano o al vespero d’autunno tra i refoli di scirocco. Sentirete il canto della storia e, come dice Salvatore Quasimodo, il vibrare triste del marranzanu, dello scacciapensieri. Suoni ancestrali, austeri. Da respirare piano, appunto, tra quinte di ulivi saraceni e assaggi di antichità.
Agrigento, anzi Akragas, come fu battezzata in onore della corrente di un fiume che l’accarezza, fu una delle più importanti città della Magna Grecia, ovvero del mondo antico.
Intorno le si innalzavano mura costruite da uomini forti come ciclopi. O almeno così sembrava dopo il 580 a.C., quando i coloni arrivati dal Mare Egeo, si dice da Rodi, sbarcarono e iniziarono ad accatastare fondamenta e sogni di grandezza. In entrambi i casi si trattava di materia robusta che resse per qualche secolo facendo si che Pindaro, il poeta passato alla storia per il suo prolisso narrare, la definisse "la più bella città dei mortali”. Poche parole stavolta, ma definitive.
Poi però la storia iniziò a sgretolare tanta bellezza: prima ci furono i tiranni (il più famoso è quel Falaride, citato pure da Dante che arrostiva i suoi nemici in un toro di metallo), poi le guerre con i cartaginesi. Tre secoli dopo arrivarono i Romani e la forza l’ebbe vinta sul sogno; la città fu saccheggiata e divenne provincia dell’Impero. Prima, tuttavia, ebbe tempo di diventare una tra le rare metropoli dell’epoca. Si dice che raggiungesse gli oltre duecentomila abitanti. Un record destinato a svanire.
La Sicilia ben presto divenne araba, la città abitata dagli uomini cambiò nome chiamandosi Girgenti e si spostò di qualche centinaio di metri su una collina. La grande area dei templi venne abbandonata. Ma nemmeno i secoli e le scurrili profanazioni degli uomini sono riusciti a azzerarne la grandezza.
Secondo quanto scoperto dagli archeologi, anche grazie alle moderne riprese aeree, la città era adagiata sotto una rupe ed era organizzata attraverso sei grandi strade intervallate da arterie minori: insomma un insediamento urbano ben più razionale di molte nostre attuali città di cui resta la traccia più evidente nei grandi templi in stile dorico costruiti in tufo giallastro. Contro il blu del cielo sembrano brillare.
Ora il parco archeologico, considerato il più grande al mondo, si estende su più di milletrecento ettari e racchiude oltre a dieci templi, santuari, necropoli e anche i resti degli insediamenti abitativi che si sono succeduti fino all’età ellenistica. Insomma, quella che fu una città, ora è un mito.
È il più famoso, il più fotografato e il meglio conservato. Peccato che il suo nome sia frutto di un abbaglio.
Uno studioso, nel 1700, trovò infatti una iscrizione vicino alle colonne: era molto più recente rispetto alla costruzione del tempio e parlava appunto della dea della Concordia. L’archeologo, forse abbagliato dal sogno di aver fatto una scoperta epocale, decise che bastava quella traccia per scoprire l’attribuzione del luogo sacro. Non era vero: ma il nome rimase. E in fondo di fronte a tanta bellezza poco conta.
Quello che vale sono le dimensioni della costruzione, davvero monumentali: le trentotto colonne scanalate sono grandiose e l’altezza della struttura supera i tredici metri. Un colosso quindi. E per di più fortunato: intorno al 600 d.C. un vescovo cristiano decise di trasformare il tempio greco in una chiesa.
Per farlo fece intraprendere qualche sguaiato lavoro di adeguamento delle pietre originali ma, di fatto, le salvò dal declino tanto che ancora oggi, pure se non è possibile accedere all’interno, si possono vedere ancora le tracce dello stucco antico. E pensate quanto dovevano brillare i colori sgargianti degli architravi colpiti dal sole della Sicilia, mentre le distese di ulivi e alberi d’agrumi facevano loro da fondale.
Questo tempio è stato assai meno fortunato: costruito da schiavi cartaginesi in realtà è ora in rovina. Ma gli storici pensano che forse anche nell’antichità non ebbe destino migliore. Tra terremoti e scorrerie di soldati pare sia crollato poco dopo la costruzione. Eppure avrebbe dovuto essere uno dei più grandi dell’epoca come dimostrano le colonne – purtroppo rovinate a terra - che potevano raggiungere i 17 metri di altezza. Non solo: a renderlo speciale c’erano i telamoni, giganteschi uomini in pietra sospesi tra le colonne.
Gigantesco non è un modo di dire: erano alti sette metri ma anch’essi ebbero un destino amaro e sono sbriciolati. Uno di loro però è stato ricostruito e posto in verticale nel museo del parco. Una copia è invece stesa a terra vicino a ciò che resta del tempio saccheggiato per secoli. Una prova: alcuni pezzi di pietra sono finiti nei moli di Porto Empedocle. Ora ci passano sopra pescatori e marinai.
Non sono bastate le scosse di terremoto e gli incendi. Ci si è messo pure un console a fare danni. E quello che vediamo ora del tempio di Giunone è la somma di questi assalti.
Il tempio, posto sulla sommità di una collina, è quasi coevo del vicino tempio della Concordia, essendo stato costruito intorno al 450 a.C. Rispetto al vicino è però assai più danneggiato: delle 34 colonne originali ne rimangono in piedi 25, anche perché già una cinquantina di anni dopo la costruzione venne bruciato dai cartaginesi. Non solo: nel III secolo a.C. arrivò anche un console romano, tale Quinto Fulvio Flacco, che aveva bisogno di rifornirsi di marmi in tempi stretti. E quindi strappò via il tetto del tempio. Inutile commentare: all’epoca si usava così. Poi, nel Medioevo fu la volta di un terremoto a dare l’ennesima spallata.
Per correre ai ripari nel 1700 gli archeologi dell’epoca iniziarono un restauro. Quello che vediamo oggi è il figlio un po’ spurio di tutte queste mani che hanno colpito o accarezzato il tufo, ma nonostante tutto resta un monumento da far battere forte il cuore.
Il nome, ancora una volta, è tutt’altro che sicuro.
L’attribuzione a Ercole infatti nasce da una citazione di Cicerone che parla di una statua dell’eroe che si trovava in un tempio posto, più o meno, in quell’area. Vero o falso? Impossibile saperlo.
Quello che è certo è che doveva essere un simbolo di forza e potenza. Proprio come il personaggio celebre per le sue fatiche.
Forse i Romani poi lo hanno rimaneggiato all’interno rispetto all’originale greco che prevedeva 38 colonne. Ovviamente anche qui il tempo ha lasciato tracce pesanti e solo nove ora sono in piedi. Ma non lo si deve ai progettisti antichi ma a un mecenate inglese, un certo capitano Hardcastle, che nel 1920 mise mano al portafoglio per rimettere in piedi le colonne. Quindi prima di scattare la foto di prammatica mentalmente rivolgiamo un “thank you” a mister Alexander.
Significa che oltre a “testimoniare una civiltà scomparsa” e raccontare, con fraseggi di marmo scolpito, una fetta “grande della nostra storia” qui si è fatto qualcosa di più, di unico. Appunto, si è realizzato un colpo di genio. Si badi bene: vecchio di qualcosa come 2500 anni. Portati però con l'eleganza mai eccessiva di una grande signora.
Non ci credete? Iniziate a camminare tra i templi in un mattino di sole siciliano o al vespero d’autunno tra i refoli di scirocco. Sentirete il canto della storia e, come dice Salvatore Quasimodo, il vibrare triste del marranzanu, dello scacciapensieri. Suoni ancestrali, austeri. Da respirare piano, appunto, tra quinte di ulivi saraceni e assaggi di antichità.
La storia
Per comprendere però appieno la grandezza di questo luogo occorre fare un passo indietro. Un passo da giganti.Agrigento, anzi Akragas, come fu battezzata in onore della corrente di un fiume che l’accarezza, fu una delle più importanti città della Magna Grecia, ovvero del mondo antico.
Intorno le si innalzavano mura costruite da uomini forti come ciclopi. O almeno così sembrava dopo il 580 a.C., quando i coloni arrivati dal Mare Egeo, si dice da Rodi, sbarcarono e iniziarono ad accatastare fondamenta e sogni di grandezza. In entrambi i casi si trattava di materia robusta che resse per qualche secolo facendo si che Pindaro, il poeta passato alla storia per il suo prolisso narrare, la definisse "la più bella città dei mortali”. Poche parole stavolta, ma definitive.
Poi però la storia iniziò a sgretolare tanta bellezza: prima ci furono i tiranni (il più famoso è quel Falaride, citato pure da Dante che arrostiva i suoi nemici in un toro di metallo), poi le guerre con i cartaginesi. Tre secoli dopo arrivarono i Romani e la forza l’ebbe vinta sul sogno; la città fu saccheggiata e divenne provincia dell’Impero. Prima, tuttavia, ebbe tempo di diventare una tra le rare metropoli dell’epoca. Si dice che raggiungesse gli oltre duecentomila abitanti. Un record destinato a svanire.
La Sicilia ben presto divenne araba, la città abitata dagli uomini cambiò nome chiamandosi Girgenti e si spostò di qualche centinaio di metri su una collina. La grande area dei templi venne abbandonata. Ma nemmeno i secoli e le scurrili profanazioni degli uomini sono riusciti a azzerarne la grandezza.
La visita al parco
Secondo quanto scoperto dagli archeologi, anche grazie alle moderne riprese aeree, la città era adagiata sotto una rupe ed era organizzata attraverso sei grandi strade intervallate da arterie minori: insomma un insediamento urbano ben più razionale di molte nostre attuali città di cui resta la traccia più evidente nei grandi templi in stile dorico costruiti in tufo giallastro. Contro il blu del cielo sembrano brillare.
Ora il parco archeologico, considerato il più grande al mondo, si estende su più di milletrecento ettari e racchiude oltre a dieci templi, santuari, necropoli e anche i resti degli insediamenti abitativi che si sono succeduti fino all’età ellenistica. Insomma, quella che fu una città, ora è un mito.
Il tempio della Concordia
È il più famoso, il più fotografato e il meglio conservato. Peccato che il suo nome sia frutto di un abbaglio.
Uno studioso, nel 1700, trovò infatti una iscrizione vicino alle colonne: era molto più recente rispetto alla costruzione del tempio e parlava appunto della dea della Concordia. L’archeologo, forse abbagliato dal sogno di aver fatto una scoperta epocale, decise che bastava quella traccia per scoprire l’attribuzione del luogo sacro. Non era vero: ma il nome rimase. E in fondo di fronte a tanta bellezza poco conta.
Quello che vale sono le dimensioni della costruzione, davvero monumentali: le trentotto colonne scanalate sono grandiose e l’altezza della struttura supera i tredici metri. Un colosso quindi. E per di più fortunato: intorno al 600 d.C. un vescovo cristiano decise di trasformare il tempio greco in una chiesa.
Per farlo fece intraprendere qualche sguaiato lavoro di adeguamento delle pietre originali ma, di fatto, le salvò dal declino tanto che ancora oggi, pure se non è possibile accedere all’interno, si possono vedere ancora le tracce dello stucco antico. E pensate quanto dovevano brillare i colori sgargianti degli architravi colpiti dal sole della Sicilia, mentre le distese di ulivi e alberi d’agrumi facevano loro da fondale.
Tempio di Giove Olimpio
Questo tempio è stato assai meno fortunato: costruito da schiavi cartaginesi in realtà è ora in rovina. Ma gli storici pensano che forse anche nell’antichità non ebbe destino migliore. Tra terremoti e scorrerie di soldati pare sia crollato poco dopo la costruzione. Eppure avrebbe dovuto essere uno dei più grandi dell’epoca come dimostrano le colonne – purtroppo rovinate a terra - che potevano raggiungere i 17 metri di altezza. Non solo: a renderlo speciale c’erano i telamoni, giganteschi uomini in pietra sospesi tra le colonne.
Gigantesco non è un modo di dire: erano alti sette metri ma anch’essi ebbero un destino amaro e sono sbriciolati. Uno di loro però è stato ricostruito e posto in verticale nel museo del parco. Una copia è invece stesa a terra vicino a ciò che resta del tempio saccheggiato per secoli. Una prova: alcuni pezzi di pietra sono finiti nei moli di Porto Empedocle. Ora ci passano sopra pescatori e marinai.
Il tempio di Giunone
Non sono bastate le scosse di terremoto e gli incendi. Ci si è messo pure un console a fare danni. E quello che vediamo ora del tempio di Giunone è la somma di questi assalti.
Il tempio, posto sulla sommità di una collina, è quasi coevo del vicino tempio della Concordia, essendo stato costruito intorno al 450 a.C. Rispetto al vicino è però assai più danneggiato: delle 34 colonne originali ne rimangono in piedi 25, anche perché già una cinquantina di anni dopo la costruzione venne bruciato dai cartaginesi. Non solo: nel III secolo a.C. arrivò anche un console romano, tale Quinto Fulvio Flacco, che aveva bisogno di rifornirsi di marmi in tempi stretti. E quindi strappò via il tetto del tempio. Inutile commentare: all’epoca si usava così. Poi, nel Medioevo fu la volta di un terremoto a dare l’ennesima spallata.
Per correre ai ripari nel 1700 gli archeologi dell’epoca iniziarono un restauro. Quello che vediamo oggi è il figlio un po’ spurio di tutte queste mani che hanno colpito o accarezzato il tufo, ma nonostante tutto resta un monumento da far battere forte il cuore.
Tempio di Ercole
Il nome, ancora una volta, è tutt’altro che sicuro.
L’attribuzione a Ercole infatti nasce da una citazione di Cicerone che parla di una statua dell’eroe che si trovava in un tempio posto, più o meno, in quell’area. Vero o falso? Impossibile saperlo.
Quello che è certo è che doveva essere un simbolo di forza e potenza. Proprio come il personaggio celebre per le sue fatiche.
Forse i Romani poi lo hanno rimaneggiato all’interno rispetto all’originale greco che prevedeva 38 colonne. Ovviamente anche qui il tempo ha lasciato tracce pesanti e solo nove ora sono in piedi. Ma non lo si deve ai progettisti antichi ma a un mecenate inglese, un certo capitano Hardcastle, che nel 1920 mise mano al portafoglio per rimettere in piedi le colonne. Quindi prima di scattare la foto di prammatica mentalmente rivolgiamo un “thank you” a mister Alexander.
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Lo troverete ovunque: su cartoline, tshirt, disegni. È uno dei simboli della Valle dei Templi. Ma è un falso.
Si chiama tempio dei Dioscuri in onore di Castore e Polluce, i gemelli nati da uno dei tanti amori di Giove. Ma quello che vedrete visitando il parco non è certo il luogo sacro dedicato a loro. Lo si sa per certo perché questa costruzione risale solo al 1836, quando due archeologi, incaricati da nobili locali, rimisero insieme quello che restava di un precedente tempio di 34 colonne ridotto in polvere e pietruzze.
I tecnici ripulirono l’area dalle erbacce, alzarono quella che doveva essere la piattaforma e presero pezzi sparsi in giro alzando prima tre, poi quattro colonne. Il risultato? Uno degli scorci più celebri e fotografati del parco archeologico, uno scorcio suggestivo diventato quasi un logo. E uno schiaffo beffardo per la filologia degli storici.
Anche questo tempio dedicato al dio del Fuoco (Efesto per i greci, Vulcano per i Romani) non porta troppo bene i suoi millenni.
Si trova all’estremità della collina e sono poche le parti ancora in piedi anche se si riesce chiaramente a coglierne la forma delle fondamenta e quindi le dimensioni che prevedevano tredici colonne sul lato lungo. Secondo gli archeologi è stato costruito sulla base di un tempio ancora più antico che risale addirittura al 550 a.C.
Il tempio detto di Demetra originariamente non aveva il classico colonnato esterno e risale a un periodo precedente rispetto ai templi meglio conservati. In più ha avuto un destino curioso.
I suoi resti ora si trovano inglobati nelle fondamenta dell’abside della chiesa medievale di San Biagio e restano visibili solo una parte della piattaforma e tratti di muri esterni. Poco lontano, anticamente, c’era anche un santuario rupestre sempre dedicato a Demetra. D’altra parte è giusto: Demetra per i Greci era la Madre Terra. Un suo tempio deve essere immerso nella natura.
Non di soli templi viveva l’uomo antico. Servivano anche le case.
In questo senso per avere una idea di che cosa fosse la città in epoca classica il modo migliore è visitare il quartiere ellenistico-romano, un’ampia fetta di città dove resta evidente la suddivisione delle strade in cardi e decumani, larghi oltre sette metri e il rigore dei progettisti: tra le case c’erano anche vicoli per accelerare il passo e un complesso sistema di canali e pozzi.
Non mancano anche i resti delle botteghe e delle tabernea. In qualche caso si può ancora vedere dove stavano le anfore con le merci, come se fossero vetrine vecchie di millenni.
Le case poi forniscono il quadro lampante della struttura sociale dell’epoca: alcune ricche, altre modeste, certe sfarzose. Quella detta del Peristilio aveva anche le terme private e quella della Gazzella degli splendidi mosaici in piccola parte arrivati sino a noi. A riprova che anche allora con i soldi ci si potevano togliere parecchi sfizi.
Il museo, inserito all’interno del parco, raccoglie molte testimonianze della antica Akragas ed è uno dei più importanti della Sicilia e, quindi, d’Italia.
In diciotto sale ospita oltre 5600 reperti che raccontano la storia di questo territorio risalendo ancor prima della fondazione della città e arrivando alla fine del periodo romano.
In mostra ci sono pezzi scavati nell’800 e altri provenienti da collezioni private, tesori ceduti da altri musei e pezzi straordinari ritrovati dal 1940 fino a oggi.
Le perle? Sicuramente la statua dell’Efebo, uno dei telemoni del tempio di Giove Olimpio e tanti vasi: sta a voi scegliere se preferite quelli a figure nere o quelle rosse. I gusti, in ogni caso, non si discutono.
Akragas all’epoca del suo splendore era una città ricca. Una visita al giardino della giardino della Kolymbetra lo dimostra.
Si tratta di un’area di cinque ettari che 1999 la regione Sicilia ha concesso al Fondo per l’Ambiente Italiano per la bonifica e il recupero. La zona è stata ripulita e restaurata dal punto di vista naturalistico e ora è una specie di grande giardino dove prosperano le specie di piante più tipiche della zona. Quelle che quasi sicuramente hanno regalato ombra e frescura al passeggiare dei nobili prima greci poi cartaginesi.
Si cammina lungo sentieri e piccoli ponti che zigzagano tra fichi e cedri, ulivi e alberi di mandorli. Volendo ci sono pure panchine e tavoli dove potersi fermare a riposarsi e mangiare. Seduti all’ombra basta poi alzare gli occhi per vedere le colonne dei templi mentre in basso si notano le cisterne dell’acqua.
Una volta qui passeggiava il filosofo Empedocle, a questi luoghi si ispirò il poeta Simonide. I loro versi oggi si studiano al liceo ma il loro spirito aleggia forse ancora nello scherzare del vento tra i rami. Ascoltando bene, oltre allo scacciapensieri in distanza e il canto delle cicale si sente ancora l’eco di qualcuno che, piano, ride e declama poesie.
Orari: il parco archeologico è aperto tutti i giorni dalle ore 8:30 alle 19 (uscita alle ore 20). Ingresso Biglietteria di Giunone.
Prezzi:
- Biglietto solo Valle dei Templi: 10 € intero / 5 € ridotto.
- Biglietto cumulativo Museo Archeologico Regionale+Valle dei Templi 13,50 € intero / 7 € ridotto.
- Biglietto cumulativo Giardino della Kolymbethra+Valle dei Templi: 15 € intero / 9 € ridotto.
- Al momento è sospeso il biglietto gratuito la prima domenica del mese per tutti i visitatori secondo gli orari ordinari di apertura a causa delle disposizioni in materia di sicurezza sanitaria.
- Fino a nuovo avviso, ingresso contingentato con prenotazione consigliata.
Animali: è consentito l’accesso ai cani purché condotti al guinzaglio, con paletta e sacchettino igienico per la raccolta delle deiezioni. Nel caso di cani di grossa taglia è necessaria anche la museruola.
All’interno dell’area archeologica non è permesso ai cani di entrare nei templi né avvicinarsi ai monumenti.
Info e prenotazioni: +39 0922 1839996.
Maggiori informazioni e dettagli sul sito ufficiale della Valle dei Templi.
Se ti interessa l'argomento leggi anche il nostro articolo sulle gite domenicali fuori porta in Sicilia.
Il tempio dei Dioscuri
Lo troverete ovunque: su cartoline, tshirt, disegni. È uno dei simboli della Valle dei Templi. Ma è un falso.
Si chiama tempio dei Dioscuri in onore di Castore e Polluce, i gemelli nati da uno dei tanti amori di Giove. Ma quello che vedrete visitando il parco non è certo il luogo sacro dedicato a loro. Lo si sa per certo perché questa costruzione risale solo al 1836, quando due archeologi, incaricati da nobili locali, rimisero insieme quello che restava di un precedente tempio di 34 colonne ridotto in polvere e pietruzze.
I tecnici ripulirono l’area dalle erbacce, alzarono quella che doveva essere la piattaforma e presero pezzi sparsi in giro alzando prima tre, poi quattro colonne. Il risultato? Uno degli scorci più celebri e fotografati del parco archeologico, uno scorcio suggestivo diventato quasi un logo. E uno schiaffo beffardo per la filologia degli storici.
Il tempio di Efesto
Anche questo tempio dedicato al dio del Fuoco (Efesto per i greci, Vulcano per i Romani) non porta troppo bene i suoi millenni.
Si trova all’estremità della collina e sono poche le parti ancora in piedi anche se si riesce chiaramente a coglierne la forma delle fondamenta e quindi le dimensioni che prevedevano tredici colonne sul lato lungo. Secondo gli archeologi è stato costruito sulla base di un tempio ancora più antico che risale addirittura al 550 a.C.
Il tempio di Demetra
Il tempio detto di Demetra originariamente non aveva il classico colonnato esterno e risale a un periodo precedente rispetto ai templi meglio conservati. In più ha avuto un destino curioso.
I suoi resti ora si trovano inglobati nelle fondamenta dell’abside della chiesa medievale di San Biagio e restano visibili solo una parte della piattaforma e tratti di muri esterni. Poco lontano, anticamente, c’era anche un santuario rupestre sempre dedicato a Demetra. D’altra parte è giusto: Demetra per i Greci era la Madre Terra. Un suo tempio deve essere immerso nella natura.
Il quartiere ellenistico
Non di soli templi viveva l’uomo antico. Servivano anche le case.
In questo senso per avere una idea di che cosa fosse la città in epoca classica il modo migliore è visitare il quartiere ellenistico-romano, un’ampia fetta di città dove resta evidente la suddivisione delle strade in cardi e decumani, larghi oltre sette metri e il rigore dei progettisti: tra le case c’erano anche vicoli per accelerare il passo e un complesso sistema di canali e pozzi.
Non mancano anche i resti delle botteghe e delle tabernea. In qualche caso si può ancora vedere dove stavano le anfore con le merci, come se fossero vetrine vecchie di millenni.
Le case poi forniscono il quadro lampante della struttura sociale dell’epoca: alcune ricche, altre modeste, certe sfarzose. Quella detta del Peristilio aveva anche le terme private e quella della Gazzella degli splendidi mosaici in piccola parte arrivati sino a noi. A riprova che anche allora con i soldi ci si potevano togliere parecchi sfizi.
Il museo archeologico regionale
Il museo, inserito all’interno del parco, raccoglie molte testimonianze della antica Akragas ed è uno dei più importanti della Sicilia e, quindi, d’Italia.
In diciotto sale ospita oltre 5600 reperti che raccontano la storia di questo territorio risalendo ancor prima della fondazione della città e arrivando alla fine del periodo romano.
In mostra ci sono pezzi scavati nell’800 e altri provenienti da collezioni private, tesori ceduti da altri musei e pezzi straordinari ritrovati dal 1940 fino a oggi.
Le perle? Sicuramente la statua dell’Efebo, uno dei telemoni del tempio di Giove Olimpio e tanti vasi: sta a voi scegliere se preferite quelli a figure nere o quelle rosse. I gusti, in ogni caso, non si discutono.
Il giardino della Kolymbetra
Akragas all’epoca del suo splendore era una città ricca. Una visita al giardino della giardino della Kolymbetra lo dimostra.
Si tratta di un’area di cinque ettari che 1999 la regione Sicilia ha concesso al Fondo per l’Ambiente Italiano per la bonifica e il recupero. La zona è stata ripulita e restaurata dal punto di vista naturalistico e ora è una specie di grande giardino dove prosperano le specie di piante più tipiche della zona. Quelle che quasi sicuramente hanno regalato ombra e frescura al passeggiare dei nobili prima greci poi cartaginesi.
Si cammina lungo sentieri e piccoli ponti che zigzagano tra fichi e cedri, ulivi e alberi di mandorli. Volendo ci sono pure panchine e tavoli dove potersi fermare a riposarsi e mangiare. Seduti all’ombra basta poi alzare gli occhi per vedere le colonne dei templi mentre in basso si notano le cisterne dell’acqua.
Una volta qui passeggiava il filosofo Empedocle, a questi luoghi si ispirò il poeta Simonide. I loro versi oggi si studiano al liceo ma il loro spirito aleggia forse ancora nello scherzare del vento tra i rami. Ascoltando bene, oltre allo scacciapensieri in distanza e il canto delle cicale si sente ancora l’eco di qualcuno che, piano, ride e declama poesie.
Informazioni utili per la visita alla Valle dei Templi
Orari: il parco archeologico è aperto tutti i giorni dalle ore 8:30 alle 19 (uscita alle ore 20). Ingresso Biglietteria di Giunone.
Prezzi:
- Biglietto solo Valle dei Templi: 10 € intero / 5 € ridotto.
- Biglietto cumulativo Museo Archeologico Regionale+Valle dei Templi 13,50 € intero / 7 € ridotto.
- Biglietto cumulativo Giardino della Kolymbethra+Valle dei Templi: 15 € intero / 9 € ridotto.
- Al momento è sospeso il biglietto gratuito la prima domenica del mese per tutti i visitatori secondo gli orari ordinari di apertura a causa delle disposizioni in materia di sicurezza sanitaria.
- Fino a nuovo avviso, ingresso contingentato con prenotazione consigliata.
Animali: è consentito l’accesso ai cani purché condotti al guinzaglio, con paletta e sacchettino igienico per la raccolta delle deiezioni. Nel caso di cani di grossa taglia è necessaria anche la museruola.
All’interno dell’area archeologica non è permesso ai cani di entrare nei templi né avvicinarsi ai monumenti.
Info e prenotazioni: +39 0922 1839996.
Maggiori informazioni e dettagli sul sito ufficiale della Valle dei Templi.
Se ti interessa l'argomento leggi anche il nostro articolo sulle gite domenicali fuori porta in Sicilia.
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